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Posts written by *Deathena*

view post Posted: 10/8/2017, 08:58 La chemioterapia non guarisce dal cancro, ma uccide. - CANCRO: informazione libera
Ciò che si vuole dimostrare in questa relazione è quanto abbiamo dichiarato in un recente comunicato stampa e che si articola, essenzialmente, in due punti.

1. La chemioterapia non guarisce dal cancro, ma uccide.

2. Il suo uso trova fondamento solo negli interessi economici delle ditte farmaceutiche.



Cenni storici

Per capire come sia stato possibile un simile tradimento, come sia possibile sostenere per così tanto tempo un simile inganno, bisogna conoscere il contesto economico e politico in cui esso è nato e si è sviluppato:

“Nei primi decenni del secolo scorso alcuni avvenimenti hanno segnato il destino della medicina per almeno un secolo. All'inizio del ventesimo secolo il gruppo di Rockefeller controllava già la maggior parte del commercio di petrolio negli Stati Uniti e in molti altri paesi. Sulla base di questi trilioni di dollari di reddito, questo gruppo di investitori ha trovato una nuova area di mercato: il corpo umano. Il profitto o il ritorno su questo investimento dipendeva dalla brevettabilità delle medicine farmaceutiche inventate. I profitti da trilioni di dollari di questa nuova industria di investimento sono stati usati per convertire sistematicamente la medicina in un commercio farmaceutico guidato dall’investimento. Nel giro di pochi decenni, la medicina è caduta sotto il controllo di questi gruppi di interesse attraverso la loro influenza nelle scuole di medicina, nei media e nell'arena politica".[1]

Nel frattempo la psichiatria (che, non dimentichiamolo, è una branca della medicina) stava preparando le teorie della razza e dell’eugenetica:

“Nel 1905, basandosi sulle teorie espresse da Malthus, Kraepelin e Spencer, Rüdin (uno dei più autorevoli psichiatri tedeschi. N.d.A.) fonda la Società per l’Igiene della Razza, costituita al fine di ottenere la purezza razziale. Rüdin è il primo promotore delle teorie di psichiatria genetica. La follia, ogni aberrazione e la superiorità o inferiorità razziali, secondo Rüdin sono determinate dalla trasmissione genetica".[2]

Quasi trent’anni più tardi, Rüdin salutò l’ascesa di Hitler come l’occasione che la storia dava alla psichiatria per la realizzazione dei suoi ideali:

“La presenza medica dominante nel programma di sterilizzazione nazista fu il dottor Ernst Rüdin, uno psichiatra di fama internazionale... Allievo in origine del grande psichiatra classico Emil Kraepelin. Rüdin divenne uno stretto collaboratore di Alfred Ploetz nella fondazione della Società Tedesca per l’Igiene Razziale. Rüdin fu un ricercatore infaticabile e vide come una sua missione l’applicazione di leggi mendeliane e di principi di eugenetica alla psichiatria".[3]

Per completare il quadro di quel momento storico manca ancora un elemento: i soldi. E’ ormai storia che i finanziatori dell’ascesa al potere di Hitler sono stati i gruppi petrolchimici-farmaceutici.

E precisamente: il gruppo Rockefeller in America, Rothschild in Inghilterra e I. G. Farben in Germania.

Per quanto riguarda quest’ultimo, il tribunale di guerra di Norimberga nel 1946/47 ha stabilito che la seconda guerra mondiale non sarebbe stata possibile senza di esso. Come conseguenza, I. G. Farben è stato tagliato in Bayer, Basf e Hoechst ed alcuni dei relativi responsabili sono stati dichiarati colpevoli di guerra contro il diritto internazionale, omicidio di massa, sfruttamento e saccheggio internazionali della proprietà privata e pubblica in paesi stranieri e di altri crimini contro l’umanità.[4]

Hitler muore, ma i responsabili dei gruppi petrolchimici-farmaceutici americano e inglese continuano ad espandere il loro potere indisturbati.

Attualmente il gruppo Rockefeller controlla più di 200 ditte farmaceutiche, è dietro ad alcune delle più grandi e influenti istituzioni finanziarie del mondo, compresa la Chase Manhattan Bank. Possiede la Exxon ed altre aziende petrolchimiche multinazionali. Inoltre controlla molti media, compreso Time Warner, CNN ed una enorme rete di giornali, radio e TV. Il reddito di questo gruppo sorpassa da solo il prodotto nazionale lordo della maggior parte delle nazioni del pianeta.

Nel 1972 il gruppo Rockefeller fonda la Commissione Trilaterale per tutelare i suoi interessi finanziari in tutto il mondo. Ad essa appartengono personaggi dell’alta finanza di USA, Europa e Giappone. L'obiettivo della Commissione Trilaterale è di generare un ”Nuovo Ordine Mondiale”; il che essenzialmente significa sottomettere il pianeta agli interessi del cartello petrolchimico-farmaceutico-finanziario. Non hanno fatto mai alcun segreto sulle loro idee, tanto è vero che hanno anche pubblicato un sito: www.trilateral.org. Anche se le sue riunioni avvengono poi sempre a “porte chiuse”...

Il 50 % dell’amministrazione Bush è formato da alti funzionari di ditte farmaceutiche. Donald Rumsfeld, l'attuale ministro della guerra è stato il direttore generale di parecchie multinazionali farmaceutiche.

Su questo intreccio di politica, finanza, guerre e ideologie soppressive mondialiste si sviluppa e prospera l’industria farmaceutica.

“Uno dei problemi primari affrontato da questa industria era la concorrenza dei prodotti naturali per la salute. Era chiaro al mondo scientifico che senza queste molecole (vitamine N.d.A.), essenziali al metabolismo cellulare, le cellule non avrebbero funzionato correttamente e ciò sarebbe stato l'origine della malattia.

Gli strateghi degli investimenti farmaceutici lo hanno capito ed hanno intrapreso una campagna globale per ostacolare che queste informazioni salva-vita diventassero ampiamente disponibili alle persone del mondo intero. Ma far tacere queste informazioni era soltanto il primo punto. Ulteriori punti strategici per sviluppare il fraudolento schema commerciale farmaceutico hanno incluso il discredito delle informazioni sanitarie su queste terapie naturali non brevettabili e infine la messa fuori legge di ogni asserzione sui sistemi naturali curativi e preventivi.

Tutte queste misure hanno avuto soltanto uno scopo: proteggere l'industria farmaceutica di investimento basata sulle medicine brevettabili, che riguardano soltanto i sintomi, dalle terapie naturali non brevettabili che sono essenziali per ottenere la salute cellulare. Nel forte contrasto, i fatti scientifici circa le molecole naturali essenziali per le funzioni cellulari di base e descritte nei manuali di biologia, sono materia di vita o di morte per questo intero commercio di investimento. Se le malattie potessero essere evitate ottimizzando la salute cellulare con le molecole non brevettabili naturali, ciò minaccerebbe la base stessa dell’intero affare farmaceutico di investimento sulle malattie. Una malattia che è evitata o sradicata sarà semplicemente un mercato in meno.

Di particolare importanza è riflettere sull'influenza dell'industria farmaceutica sulla professione medica. Attraverso la fondazione di facoltà di medicina private negli Stati Uniti, comprese le cosiddette università della “Ivy League” come Harvard, Yale, la clinica Mayo ed altre, l’industria farmaceutica di investimento ha semplicemente comprato l'opinione medica in tutto il mondo. Sempre di più, l'insegnamento delle terapie mediche si è concentrato sulle medicine chimiche ed, allo stesso tempo, i trattamenti sanitari naturali sono stati banditi efficacemente come ”antiquati”. Ogni medico che si è laureato nelle ultime decadi ha imparato appena che il primo premio Nobel per il ruolo di vitamina C nel metabolismo cellulare è stato assegnato nel 1937. Quindi, durante più della metà di un secolo, generazioni di milioni di medici finirono l’università senza alcuna conoscenza circa il ruolo di salva-vita e di beneficio per la salute delle vitamine, dei minerali e degli oligoelementi.[5]

Delineato brevemente il quadro storico, vediamo ora, all’atto pratico, i frutti che la medicina moderna ha generato. Date le premesse, non possono essere che frutti velenosi. Limitiamoci ad analizzare quello che costituisce l’argomento di questa relazione: la chemioterapia.



Dati scientifici

Come è nata questa strana pratica di somministrare terribili sostanze ai pazienti per guarirli?

“Essa si basa sul fatto che le cellule cancerose sono più deboli di quelle sane, pertanto, sotto l'azione di veleni o di radiazioni ionizzanti, sono le prime a morire. Questa constatazione porta però a una delle pratiche più insensate della storia della medicina: avvelenare ed irradiare il paziente per guarirlo! Anche la persona meno informata, riesce a comprendere che guarigione significa miglioramento della salute. Nessuna persona sana di mente penserebbe che l'inquinamento, gli esperimenti atomici o l'incidente di Chernobyl siano i provvidenziali vantaggi dei nostri tempi per mantenerci sani".[6]

Tutte queste discussioni fatte in televisione in questi (e altri) giorni su chemio o medicine alternative hanno un solo scopo: confondere le idee e annebbiare le menti della gente. In verità la questione è di una semplicità lapalissiana e disarmante. Vogliamo sapere se la chemio è una terapia valida o no? E’ molto facile saperlo; basta fare quello che si fa con qualsiasi altra cosa di qualsiasi genere per sapere se è funziona o no: si osservano i RI-SUL-TA-TI. Su di essa esistono studi, statistiche, dati ufficiali accurati. E’ vero che gli oncologi, con la complicità dei media, creano su di essi una cortina fumogena, ma non è per niente difficile averli: basta chiederli. Io li ho trovati e ve li posso comunicare. Ripeto: questi non sono i miei dati, sono i dati ufficiali dell’oncologia ufficiale.

Prima di tutto bisogna sapere cosa si intende in oncologia per paziente guarito di cancro. Poiché effettive guarigioni non ne ottengono mai, definiscono guarito colui che sopravvive almeno cinque anni dal giorno della diagnosi, anche se muore cinque anni e un giorno dopo, anche se alla fine del quinto anno ha un cancro grande come una zucca che gli sta straziando il corpo. Credo che poche persone conoscano questo dato. Non crediate tuttavia che venga tenuto segreto; ma, per darvi un’idea, in tanti anni io per televisione l’ho sentito dire solo un paio di volte e di sfuggita. Confrontate ciò con le migliaia di ore di chiacchiere trionfalistiche di Tirelli and company. Ricordatevi poi che cambiare il significato alle parole è un mezzo per confondere e dominare. Questo dato pertanto è fondamentale, è la chiave per capire veramente tutti i discorsi che fanno gli oncologi quando parlano di “guarigione”.

Premesso ciò: ogni 100 persone che si ammalano di cancro, 61 muoiono entro 5 anni dalla diagnosi.

Le statistiche di sopravvivenza a 10 anni sono più difficili da trovare. Sono così sconsolanti che gli oncologi si vergognano veramente a farle vedere. Sembra comunque che siano attorno al 10- 15%.

Provate un po’ ad immaginare un impresario edile che costruisce case il cui 61 % crolla entro cinque anni dalla costruzione. Prima di tutto nessuno comprerebbe più da lui e poi verrebbe messo in galera; a meno che qualcuno non lo appenda prima al più vicino lampione... Invece gli oncologi vengono strapagati, onorati, vezzeggiati, ascoltati per ore e ore in noiosissime trasmissioni televisive. I più famosi oncologi italiani riescono a farsi pagare 200 euro o più per visite di 10-15 minuti! Incomprensibile... Il fatto è che costoro fanno leva sulla paura, sul dolore e sull’ignoranza di questi dati da parte dei malati e dei loro famigliari. Come la paura e l’ignoranza vengono poi alimentate sistematicamente con ogni mezzo, potete facilmente constatarlo voi stessi.

A fronte di un’efficacia nulla della chemioterapia, ben testimoniata dai risultati, vi è una terribile tossicità delle sostanze usate, tanto è vero che le autorità sanitarie hanno dovuto prendere drastici provvedimenti per salvaguardare la salute dei lavoratori addetti alla produzione e alla somministrazione di questi cosiddetti farmaci (medici, infermieri e farmacisti).

Poiché la lista degli effetti collaterali è molto lunga, mi limito a darvi alcune delle caratteristiche tossicologiche in generale e di un paio di sostanze specifiche, prendendole da una pubblicazione dell’Istituto Superiore della Sanità.



Chemio in generale

Tra una ventina di effetti collaterali, troviamo: sterilità, aborti, malformazioni nei figli, danni a cuore, fegato, reni, sistema nervoso e produzione di tumori secondari (!!!).

“Infatti, non solo essi sono in grado di innescare la trasformazione di cellule normali in maligne, ma tendono a ridurre le difese endogene contro l’insorgenza di neoplasie”.[7]

Lo sanno anche loro che questa è una pratica assassina. Comunque di questo non avevo dubbi.

Antraciclinici: “Stomatite, alopecia e disturbi gastrointestinali sono comuni ma reversibili. La cardiomiopatia, un effetto collaterale caratteristico di questa classe di chemioterapici, può essere acuta (raramente grave) o cronica (mortalità nel 50 % dei casi). Tutti gli antraciclinici sono potenzialmente mutageni e cancerogeni”.[8]

Procarbazina: “E’ cancerogena, mutagena e teratogena (malformazioni nei figli N.d.A.) e il suo impiego è associato a un rischio del 5-10 % di leucemia acuta, che aumenta per i soggetti trattati anche con terapia radiante”.[9]

Bene; potrei fermarmi qui e finire questa relazione; sarebbe più che sufficiente. Ma poiché non mi basta chiudere la bocca agli oncologi e ai loro lacchè, ma voglio anche cucirla con filo d’acciaio, ecco di seguito una valanga di altri dati.

Qualche anno fa, dopo che era scoppiato il caso Di Bella, gli oncologi cominciarono a dichiarare pomposamente su televisione e giornali che “ora abbiamo il 50 % di guarigioni”, ovviamente sempre evitando di dire che guarigione significa sopravvivenza a cinque anni. Eppure le statistiche ufficiali davano sempre un 39 %. Cosa era successo? Un’improvvisa e geniale scoperta? No! Per guadagnare quell’11 % in più, hanno fatto la media delle “guarigioni” dei vari tipi di tumore con una manipolazione matematica per la quale verrebbero bocciati con disonore all’esame di licenza media inferiore.

Faccio un esempio di come fanno la media delle “guarigioni” e, per semplificare, prendo in esame solo due tipi di tumore. Tumore al polmone: 40.000 casi all’anno, 10 % di “guarigioni”; tumore al testicolo: 2.000 casi, 87 % di “guarigioni”. (87+10)/2=48,5% La percentuale media di guarigioni dei due tipi di cancro sarebbe così il 48,5 %. E’ indegno che si permetta a queste persone di dire pubblicamente simili cialtronerie! En passant, l’operazione corretta è questa: (40.000x10/100+2.000x87/100)/(40.000+2.000)x100=13,7 La reale percentuale media è dunque il 13,7 %. Una bella differenza!

Analizziamo un altro “dato” trionfalistico. Gli oncologi vanno dicendo che le possibilità di guarire dal cancro sono molto più alte oggi, il 39 % (oppure il famoso 50 %), rispetto al 20 % del 1930. Ma come mai allora le morti per cancro sono spaventosamente aumentate negli ultimi 70 anni (vedi più avanti)? Il fatto è che nel 1930 non esistevano tutti i sofisticati mezzi di diagnosi e le campagne di sensibilizzazione alla diagnosi precoce; pertanto il cancro veniva scoperto tardivamente e così il tempo fra la diagnosi e il decesso era breve, se non brevissimo. Oggi invece, poiché la diagnosi avviene in tempi molto più precoci, la morte arriva più tardi rispetto alla diagnosi stessa e più sovente oltre i fatidici 5 anni!



Il Prof Luigi Di Bella avverte che:

"se una persona viene dimessa dall'ospedale si dice che è in remissione. Quando ritorna viene curata e viene dimessa un'altra volta. Se ogni dimissione viene considerata come un dato positivo, i conti aumentano. E siccome non si può morire più di una volta, se un individuo è stato dimesso 9 volte ed è morto una volta sola si avrà un 90% di guarigione e il 10% di mortalità. La fortuna dei medici è che si muore una volta sola”.[10]

Estremamente importante è poi:

“la vasta indagine condotta per 23 anni dal Prof. Hardin B. Jones, fisiologo presso l'Università della California, e presentata nel 1975 al Congresso di Cancerologia, presso l'Università di Berkeley. Oltre a denunciare l'uso di statistiche falsificate, egli prova che i cancerosi che non si sottopongono alle tre terapie canoniche (chemio, radio e chirurgia N.d.A.) sopravvivono più a lungo o almeno quanto chi riceve queste terapie. Come dimostra Jones, le malate di cancro al seno che hanno rifiutato le terapie tradizionali, mostrano una sopravvivenza media di 12 anni e mezzo, quattro volte superiore a quella di 3 anni raggiunta da coloro che si sono invece sottoposte alle cure complete”.[11]

“Uno studio condotto da quattro ricercatori inglesi, pubblicato su una delle più autorevoli riviste mediche del mondo, The Lancet del 13-12-1975, e che riguarda 188 pazienti affetti da carcinoma inoperabile ai bronchi. La vita media di quelli trattati con chemioterapia completa fu di 75 giorni, mentre quelli che non ricevettero alcun trattamento ebbero una sopravvivenza media di 220 giorni”.[12]

Un altro dato fondamentale che indica come le terapie ufficiali per i tumori siano inefficaci, sono le statistiche di morte per tumore. Nonostante le decine di trilioni di lire spesi per la ricerca e le centinaia di trilioni per i trattamenti, i dati degli istituti di statistica di tutti gli stati occidentali mostrano che le morti per cancro dal 1950 alla fine del secolo sono continuamente e notevolmente aumentate.

Riunione del settembre 1994 del President's Cancer Panel: "Tutto sommato, i resoconti sui grandi successi contro il cancro, devono essere messi a confronto con questi dati" aveva detto Bailar, indicando un semplice grafico che mostrava un netto e continuo aumento della mortalità per cancro negli Stati Uniti dal 1950 al 1990. "Torno a concludere, come feci sette anni fa, che i nostri vent'anni di guerra al cancro sono stati un fallimento su tutta la linea."

Chi è questo personaggio che esprime idee così eretiche, un medico alternativo? Un ciarlatano, come è stato definito Di Bella? Un guaritore che approfitta dei poveri malati? Uno che non conosce le percentuali di guarigione?

Niente di tutto questo. Risulta difficile definire ciarlatano o incompetente, John C. Bailar III, insigne professore di epidemiologia e biostatistica alla Mc Gill University, uno dei più famosi esperti di oncologia degli Stati Uniti e dell'intero pianeta. Non parlava del resto ad una platea di sprovveduti; il President's Cancer Panel è nato in conseguenza del National Cancer Act, un programma di lotta contro il cancro, firmato dal presidente americano Richard Nixon il 23 dicembre 1971 e per cui si sono spesi fino al 1994 ben 25 miliardi di dollari. I dati relativi alla situazione della lotta al cancro vengono forniti direttamente al Presidente degli Stati Uniti.

La conclusione principale di Bailar, con cui l'NCI (National Cancer Institute) concorda, è che la mortalità per cancro negli Stati Uniti è aumentata del 7% dal 1975 al 1990. Come tutte quelle citate da Bailar, questa cifra è stata corretta per compensare il cambiamento nelle dimensioni e nella composizione della popolazione rispetto all'età, cosicché l'aumento non può essere attribuito al fatto che si muore meno frequentemente per altre malattie.[13] I dati “grezzi” sono ancora più pesanti.

Infine cito la conclusione a cui sono arrivati ricercatori del Dipartimento di genetica e di biologia molecolare dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma attraverso ricerche sperimentali.

Essi “confermano, infatti, che alcuni chemioterapici, quali la citosinarabinoside, il metotrexato, la vincristina ed il cisplatino4 (sostanze usate comunemente e quotidianamente nei trattamenti N.d.A.), in particolari linee tumorali aumentano la resistenza alla morte cellulare (...) Questi i risultati sono sorprendenti, poiché dimostrano che i suddetti chemioterapici non uccidono le cellule tumorali, come invece generalmente si ritiene, bensì, impedendo l’apoptosi (= morte della cellula N.d.A.), facilitano la crescita del tumore".[14]

A questo punto penso di poter veramente chiudere questa relazione in quanto i due punti dichiarati nel mio comunicato stampa:

1. La chemioterapia non guarisce dal cancro, ma uccide.

2. Il suo uso trova fondamento solo negli interessi economici delle ditte farmaceutiche.

Possono considerarsi dimostrati al di là di ogni ragionevole dubbio.

Ovviamente ho dovuto tralasciare molti altri dati estremamente interessanti, per rimanere nelle dimensioni previste per una mezz’ora di relazione; suggerisco perciò, a chi volesse approfondire certi argomenti, i seguenti libri o articoli che possono essere scaricati gratuitamente dal sito www.aerrepici.org:

Cancro, politica, medicina alternativa e ufficiale:

* Alberto R. Mondini – Kankropoli, la mafia del cancro

* Prof. Linus Pauling – intervista

* Dott. Matthias Rath – intervista

I risultati della medicina ufficiale:

* Alberto R. Mondini – La medicina, prima causa di morte in USA (783.936 morti in media all’anno)

* Ricercatori vari – Morte per medicina (Death by Medicine, ricerca in lingua inglese)

La medicina, scienza o truffa:

* Prof. dott. Hans-Ulrich Niemitz – perizia tecnico-giudiziaria sulla validità scientifica della medicina

* Associazione Forces Italiana - La truffa del fumo passivo

La vera natura della psichiatria e il suo ruolo dietro guerre passate e presenti e terrorismo:

* Dott. Roberto Cestari – L’inganno Psichiatrico

* Luca Bistolfi – La verità sull’olocausto



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Note

1. Dott. Rath - intervista

2. Dott. Cestari – L’inganno psichiatrico

3. R. J. Lifton – I medici nazisti

4. v. Josef Borkin - Il crimine e la punizione di I. G. Farben

5. Dott. Rath - idem

6. Alberto R. Mondini – Kankropoli, la mafia del cancro

7. Istituto Superiore di Sanità – Esposizione professionale ai chemioterapici

8. Istituto Superiore di Sanità – idem

9. Istituto Superiore di Sanità – idem

10. Di Bella - La sua cura contro il cancro" in abbinamento con Il Resto del Carlino, Il Giorno, La Nazione

11. Alberto R. Mondini – idem

12. Alberto R. Mondini – idem

13. Alberto R. Mondini – idem



*Presidente dell’Associazione per la Ricerca e la Prevenzione del Cancro

dalla relazione del 30 ottobre 2004
view post Posted: 10/8/2017, 06:59 Immigrazione: LETTERA AD UN FRATELLO MUSSULMANO!! - Comportamento sociale
Caro Fratello,
ti ho scritto l'anno scorso... qui in Italia sembra di vivere in una terra magica. Se sei extra puoi fare quello che vuoi. Puoi prendere a pugni anche un poliziotto e farlo sospendere.... puoi andare in bicicletta anche in autostrada.... puoi entrare anche nelle case e occuparle mentre la gente è in vacanza... puoi fare veramente proprio tutto.... puoi stare tutto il giorno con le palle al sole... a chattare. Qui abbiamo anche wifi e buon cibo. Cercate di venire in Italia tutti quanti.... alcune italiane sole anche ci accolgono in casa e per un po' di sesso ci pagano tutto.... ci danno da mangiare, da dormire, ci pagano il cinema, il ristorante e ci vestono bene.... venite tutti qui. Noi siamo impuniti e impunibili. Spacchiamo quando siamo arrabbiati, non paghiamo i mezzi pubblici, al pronto soccorso basta gridare un po' e abbiamo assistenza gratis e veloce.... è un paese bellissimo. Qui non si lavora perché è vietato ai richiedenti asilo... hahahaha questi sono tutti scemi... se sei bravo fai un' autocertificazione e ottieni la pensione a casa tua, in Africa, nel tuo paese. Ci sono enti che ti aiutano a ottenere questo e altrimenti chiedi ad altri fratelli.... è uno spettacolo di vita, un vero e proprio paradiso. Non paghi bollette, affitto, niente tasse, credimi è molto, molto di più di ciò che ti scrivo... vi aspetto tutti qui.
Un abbraccio.
Mohame
d
view post Posted: 10/8/2017, 06:30 Vaccini :le bugie!Dalle uova al congelatore, ecco come si preparano i vaccini - Come difendervi dai rischi delle vaccinazioni

[CENTER]Dalle uova al congelatore, ecco come si preparano i vaccini
Un viaggio negli stabilimenti Sanofi Pasteur di Val de Reuil per scoprire come vengono prodotti, immagazzinati e distribuiti i vaccini.

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Un normale uovo di gallina. Certo, allevata in ambiente protetto, nutrita con mangimi selezionati e sottoposta a continui controlli veterinari. Ma è da qui che parte il processo produttivo dei vaccini, in queste settimane al centro di una forte polemica in Italia. Per raccontarlo, Wired ha visitato gli stabilimenti Sanofi Pasteur di Val de Reuil, in Francia.

Cittadina dell’Alta Normandia dove ha sede uno stabilimento della multinazionale del farmaco. Uno spazio di oltre 300mila metri quadrati dove lavorano più di 2mila persone. Qui vengono prodotti vaccini contro l’influenza, la poliomielite, la febbre gialla e la rabbia. Un percorso che, appunto, inizia dalle uova.

È in queste uova infatti che vengono iniettati i virus affinché si moltiplichino, per poi essere inattivati e inseriti nel vaccino. Si tratta del metodo tradizionale, ed anche più economico, di coltivare i patogeni. E se un bambino fosse allergico? “È previsto un passaggio di purificazione per rimuovere ogni traccia di albume”, assicura Olivier Chauvet, Filling and Packaging director allo stabilimento di Val de Reuil.

In ogni uovo viene iniettato un singolo tipo di virus. Quando la loro quantità è sufficiente, vengono estratti, appunto purificati e, attraverso una serie di procedimenti chimici, inattivati. Diventando, così, il vaccino che sarà poi iniettato nel paziente. Ma cosa c’è nelle siringhe monodose utilizzate dai pediatri? “Gli antigeni sono sostanzialmente delle proteine.



Poi c’è del sale, acqua e una soluzione che stabilizza il Ph”, spiega Chauvet.

Niente adiuvanti? Niente sali di alluminio? “Per alcune tipologie di vaccino sono necessari, altrimenti non si innesca la protezione”, la risposta del Global medical expert di Sanofi Pasteur Emmanuel Vidor. “I sali di alluminio vengono impiegati da almeno 70 anni”, aggiunge, “e ci sono centinaia di studi, sia realizzati dalle case farmaceutiche che da istituti indipendenti, che mostrano la loro sicurezza”.

Un operatore controlla la cisterna all'interno della quale è immagazzinato il vaccino prima del confezionamento. Copyright Sanofi Pasteur
Un operatore controlla la cisterna all’interno della quale è immagazzinato il vaccino prima del confezionamento. Copyright Sanofi Pasteur
Una volta prodotto, il vaccino viene immagazzinato in cisterne conservate in ambienti refrigerati. Per l’antiinfluenzale bisogna rimanere tra i 2 e gli 8 gradi centigradi, ma per l’antipolio si scende addirittura a -20 gradi. Il passaggio successivo è quello del confezionamento, che si svolge in un ambiente completamente sterile. Si parte dalle siringhe, che arrivano nello stabilimento in dei contenitori sigillati. È una macchina ad aprirli e a disporle sulla catena che le porterà ad essere riempite di vaccino.



Prima di arrivare all’inscatolamento, passano attraverso una macchina dotata di 23 telecamere che verifica la presenza di eventuali imperfezioni nelle siringhe, scartandole in automatico. Ma anche, utilizzando luci bianche e rosse, di particelle. “Possono essere proteine aggregate o impurità che vengono dai componenti della siringa”, precisa Chauvet. In entrambi i casi, il prodotto viene scartato. Prima di buttarlo, però, “lo analizziamo per capire quale sia il problema. Il 70% delle ore di lavoro viene impiegato per svolgere controlli di qualità”, sottolinea Vidor.


L’imballaggio avviene a una temperatura ambiente. Ma come, i vaccini non devono rimanere in zone refrigerate? “Possono sopportare una temperatura fino a 25 gradi, che qui non viene mai superata, per un periodo di tempo limitato, che varia a seconda del vaccino”, spiega Chauvet. L’ordine di grandezza è quello delle ore. I macchinari presenti nello stabilimento di Val de Reuil cronometrano il tempo che il vaccino trascorre a temperatura ambiente. Se viene superato quello massimo consentito, il prodotto viene scartato.

Una volta impacchettate, le siringhe monodose contenenti il vaccino sono pronte per essere trasferite nel reparto di stoccaggio. Un’enorme magazzino con una particolarità: la temperatura. Come detto, il vaccino antinfluenzale va conservato tra i 2 e gli 8 gradi, l’antipolio a -20° C. E sono esattamente queste le temperature all’interno del magazzino. Tanto che, all’ingresso, ai visitatori viene consegnata una giacca.

Il fatto è che queste temperature devono essere garantite anche nella fase di trasporto, che su gomma avviene in camion frigoriferi. Mentre, per i viaggi più lunghi, sono state studiate delle confezioni che permettono di mantenerla. All’interno vengono inseriti quelli che Pierre-Jean Odokin, Supply chain director, ha definito “ice packs”. Ovvero dei blocchi di plastica contenti acqua lasciata per tre settimane a 20 gradi sotto lo zero. Non solo. In ogni confezione ci sono 9 rilevatori, posizionati in diversi punti all’interno della scatola, che registrano costantemente la temperatura. Una volta arrivati a destinazione, “in un viaggio che non dura mai più di 72 ore”, i dati raccolti vengono scaricati su un computer. E se la temperatura ha superato o è scesa al di sotto degli intervalli consentiti, il prodotto viene scartato.

Anche in magazzino si fa attenzione a sicurezza e tracciabilità. Persino i bancali sono dotati di codice a barre e su ogni muletto c’è un sensore capace di leggerli. Così che il sistema sappia in ogni istante dove si trova ogni fiala di vaccino custodita all’interno del deposito. Deposito che diventa importante anche per un altro aspetto: i tempi di produzione dei vaccini. Che possono variare dai 7 mesi, per quello contro l’influenza, ai 36 mesi.

In caso di epidemia, si ricorre ai prodotti stoccati a Val de Reuil. È successo per esempio a gennaio, quando in Brasile è scoppiata un’epidemia di febbre gialla. Sanofi Pasteur è al principale produttrice al mondo del vaccino contro questa malattia. Ed è proprio da questo stabilimento che sono partite le fiale immagazzinate. Solo una parte delle 900 milioni di dosi di vaccino che ogni anno dall’Alta Normandia raggiungono gli studi medici di tutto il mondo.


LE BUGIE :La citata azienda produttrice di uova ..ci hanno lavorato 2 miei amici ,e mi hanno raccontato cose indicibili!!
Attualmente vivono e lavorano in francia e non hanno messo piu piede in quelle aziende...vorrei un documentario su quelle produzioni di uova
view post Posted: 9/8/2017, 10:41 Empatia: quali sono i danni morali - Comportamento sociale
I danni morali dell’empatia
–di Paolo Legrenzi 05 agosto 2017

Nel 2001 Joshua Greene, dell’Università di Harvard, pubblica su Science una ricerca che è divenuta un classico degli studi sulle basi neurali dei dilemmi etici. Greene ha presentato ai suoi soggetti storie come quella, celeberrima, concepita come esperimento mentale nel 1967 da Philippa Foot: «Una locomotiva sta per travolgere cinque operai. Puoi intervenire su uno scambio e deviare la locomotiva su un altro binario uccidendo un solo operaio. Che cosa fai? Uccidi un operaio e ne salvi cinque, oppure non fai nulla?». La grande maggioranza delle persone preferisce deviare la locomotiva.

Immaginate ora di trovarvi su un viadotto. Potete spingere un passante corpulento. Se lo fate cadere sullo scambio, la locomotiva non travolge i cinque operai. In questo secondo caso la maggioranza non fa nulla.

Greene e colleghi sono andati a vedere quali sono le aree neurali coinvolte in queste due decisioni. Nel caso della situazione in cui dovremmo buttare giù il passante dal ponte, le aree del cervello deputate alle emozioni sono molto più attive rispetto al primo caso, quello dello scambio con intervento a distanza. Alle diverse localizzazioni neurali corrispondono due tipi di decisioni strutturalmente diverse. La prima innesca un calcolo costi-benefici, secondo la tradizione utilitarista che misura i pro e i contro. La seconda attiva un’identificazione emotiva con il passante corpulento. Il bilancio è in ogni caso di 5 a 1, ma se scatta l’empatia adottiamo una sorta di etica kantiana che ci prescrive di «non uccidere mai». Una conferma di questo modo di funzionare del nostro cervello la ritroviamo considerando la minoranza che decide di sacrificare il passante. La decisione è lenta, richiede più tempo: l’identificazione empatica con la vittima è immediata. Poi queste persone finiscono per bloccare la risposta spontanea e per adottare la fredda e razionale prospettiva utilitarista.

Jean-François Bonnefon, un giovane e brillante ricercatore che lavora a Tolosa nel gruppo di Jean Tirole, premio Nobel per l’economia del 2014, ha trasferito questi dilemmi a scenari in cui si deve decidere come programmare veicoli a guida autonoma. Il traffico impone comunque bilanci costi-benefici e una vettura a guida automatica Tesla ha ucciso il guidatore il 7 maggio 2016. Confrontando diversi scenari, Bonnefon ha scoperto che nel caso di una macchina a guida autonoma si preferisce il criterio utilitarista, salvando cinque persone e uccidendone una sola, anche quando questa persona è il passeggero della macchina. Nello stesso tempo, ben poche delle persone «utilitariste» dichiarano che acquisterebbero una vettura così programmata. Se il veicolo fosse di loro proprietà, preferirebbero che la guida autonoma salvasse «ad ogni costo» l’autista e i passeggeri. Ancora una volta scatta la trappola dell’empatia, la condivisione delle emozioni con chi è vicino. In conclusione, la tradizionale disputa filosofica tra kantiani e utilitaristi resta, alla prova dei fatti, senza una risposta perché ha troppe risposte.

Questi lavori hanno preparato il terreno per un recente libro «contro l’empatia» scritto da Paul Bloom, grande psicologo dell’università di Yale. La posizione di Bloom, molto discussa, non è contro l’empatia quando la condivisione delle emozioni altrui può produrre conseguenze benefiche per il prossimo a noi “vicino”. E tuttavia l’empatia non è sufficiente per guidare le azioni morali e fare del bene in scenari ricchi e complessi. Può essere contro-producente e frenare degli interventi di vasto respiro guidati da una logica consequenzialista, basata cioè su un bilancio costi benefici. Supponiamo – sostiene Bloom (p. 195) – che un’azione miliare preventiva avesse potuto impedire a Hitler d’uccidere milioni di persone nei campi di concentramento. Questo intervento sarebbe stato morale anche se l’azione militare avesse sacrificato persone innocenti. Un caso reale, raccontato nel film The Imitation Game, è quello in cui Alan Turing, durante la seconda guerra mondiale, riesce a costruire il primo calcolatore della storia e a decifrare il codice Enigma dei tedeschi. Una volta fatto saltare il codice era essenziale che i nemici non se ne accorgessero. Di conseguenza i britannici, pur sapendolo in anticipo, non preavvisarono Coventry che sarebbe stata bombardata. Lo decisero in base a un calcolo costi-benefici spietato ma razionale. Avrebbero salvato in futuro molte più vite lasciando bombardare Coventry.

L’empatia può essere usata in direzioni diverse, ma è comunque fuorviante. Pensiamo alla retorica statunitense anti-immigrazione. Quando Donald Trump conduceva la sua campagna elettorale nel 2015 era solito parlare di Kate – non usava il suo nome intero, Kate Steinle, solo Kate. Kate Steinle era stata uccisa a San Francisco durante un episodio che non si era riusciti a ricostruire con precisione, forse era stato un immigrato. Trump voleva suscitare empatia e imbastiva una storia immaginaria con protagonisti dei killer messicani. Anche nel libro ricordato da Bloom, Adios America di Ann Coulter, si parla non del fenomeno migratorio in generale ma solo di singoli episodi in cui le vittime sono sempre descritte in modo che il lettore si identifichi con loro, aizzando così l’odio anti-immigrati e legittimando le violenze delle polizie. Non ci sono molte ricerche empiriche sul fenomeno, ma gli psicologi Anneke Buffone e Michael Poulin ci hanno provato. Dapprima hanno chiesto alle persone di descrivere un momento, nell’anno precedente, in cui erano stati vicini a una persona che era stata maltrattata fisicamente o in altri modi. Chiesero quanto le persone si sentivano vicine alla vittima e quanto avrebbero voluto punire l’aggressore, anche con la violenza. Quanto più una persona si sentiva vicino alla vittima, quanto più ne condivideva le emozioni e le paure, tanto più avrebbe punito con la violenza l’aggressore. Questo risultato, ammettono i due ricercatori, si può spiegare in più modi: forse non è l’empatia a motivare l’aggressività ma solo la vicinanza con la vittima. Prepararono così un secondo esperimento, più ingegnoso. Alle persone si raccontava una gara tra studenti sconosciuti per un premio di venti dollari che si svolgeva in un’altra stanza dell’edificio. Poi le persone leggevano la stessa descrizione delle difficoltà finanziarie di uno studente, uguale in tutto e per tutto ma con due finali diversi. Un finale suscitava empatia (Non ho mai avuto così pochi soldi, è una cosa che mi spaventa) e l’altro era neutro (Non ho mai avuto così pochi soldi ma la cosa non mi riguarda). Le persone in cui era stata attivata l’empatia verso lo sconosciuto si comportavano poi in modo diverso: la conoscenza diretta non è un fattore essenziale.

In tutti questi casi, purtroppo, l’empatia non riesce ad andare oltre a un altruismo dal limitato raggio d’azione. Si è soliti dire che l’empatia è la strada verso la bontà. Questo può essere vero nel momento in cui abbiamo di fronte chi soffre. E tuttavia questa identificazione, se non collocata razionalmente in un quadro più ampio, può essere fraintesa e causare guai in un mondo complesso come il nostro. Trump ha usato l’empatia contro i migranti messicani. In Italia per fortuna c’è un clima culturale diverso e spesso i racconti dei media attivano empatia in senso opposto, per esempio per il migrante in mare, in pericolo di vita. Tutti approvano il salvataggio, ovviamente. Non tutti, però, sono consapevoli che questo gesto isolato suscita speranze in altri potenziali migranti aiutando indirettamente chi lucra su questo traffico talvolta mortale. Proviamo empatia per il naufrago, ma anche per il sindaco del paesino veneto che è costretto, contro l’opinione di molti concittadini, a ospitare migranti in una piccola comunità refrattaria a persone sconosciute e difficilmente integrabili. Molta condivisione delle emozioni, poco atteggiamento razionale e con visioni a lungo termine basate su forme di altruismo equilibrate e distribuite nel tempo e nello spazio. Il cardinale vicentino Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, forse ignora l’esistenza di Paul Bloom, ma ha adottato una prospettiva simile parlando recentemente ai rappresentanti dei «Veneti nel mondo». Ha dichiarato con fermezza che la gestione del fenomeno migratorio «non può essere affidata solo alla generosità e al buon cuore dei singoli».

Questa tendenza umana a ragionare nell’ambito di scenari “locali”, guidati da empatia a corto raggio, viene da molti studiosi attribuita alle condizioni di vita in piccoli clan tipica del nostro lungo passato pre-agricolo. Quando invece siamo passati a società complesse è stato necessario introdurre norme impersonali, oggettive ed esteriori, la morale insomma. Dati i limiti incorporati nei modi di funzionare del nostro cervello oggi non è più sufficiente un coordinamento razionale delle preferenze di poche decine di persone. Diverrebbero necessari ogni volta costi di transazione troppo alti. Meglio una morale stabile, esteriore, condivisa. Un vivace dibattito aperto da Kyle Stanford dell’università di California sulla più importante e nota rivista di psicologia parte proprio dall’osservazione polemica che la preferenza di gusto per un gelato non è comparabile con il disgusto per i nazisti.

www.psy.com
view post Posted: 9/8/2017, 09:42 Tumore al cervello, scoperta Made in Sud - Attualità e verità nascoste
Tumore al cervello, scoperta Made in Sud
Iavarone Lasorella: lo scacco ai baroni
Di Antonio V. Gelormini

Quindici anni di impegno e di successi nella ricerca in uno degli ambiti più delicati e suggestivi della medicina: la crescita del tumore al cervello dei bambini. Antonio Iavarone e Anna Lasorella raggiungono ancora un traguardo “epocale”, testimoniando con orgoglio ed amarezza il talento di scienziati “Made in Italy” - nemo propheta in patria - costretti a trovare spazio, fiducia, sostegno, risorse e riconoscimenti all’estero. Nel 2000, infatti, lasciarono l'Italia per gli Stati Uniti, in polemica col sistema “baronale” e “nepotista” dell’Università, che non permetteva loro di sviluppare adeguatamente studi e ricerche.


La loro ultima scoperta - fondamentale per la lotta contro i tumori del cervello - è stata pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Nature. Si tratta della individuazione del meccanismo che favorisce lo sviluppo delle cellule staminali tumorali del glioblastoma, il più aggressivo e letale dei tumori cerebrali. In pratica, le cellule che danno inizio al tumore, ne favoriscono la crescita generando nuove cellule e resistono a terapie di forte impatto come radioterapia e chemioterapia, permettendo la riformazione del tumore. La chiave di questo meccanismo, scoperta dai due scienziati e dal loro team della Columbia University di New York, si chiama Id-2, una proteina sulla quale da oltre 15 anni si sono concentrate le ricerche della coppia campano-pugliese.

Combattere il tumore al cervello è l'obiettivo che Antonio Iavarone e Anna Lasorella, marito e moglie da molti anni, si sono posti dai primi anni di studio all'Università. "Siamo entrambi pediatri - dice Iavarone - io sono di Benevento e mia moglie di Noicattaro (Ba), e ci siamo conosciuti a Roma al Policlinico Gemelli, all'inizio degli anni '90: lavoravamo entrambi al reparto di Oncologia pediatrica. Grazie alle nostre ricerche avevamo ottenuto un grande finanziamento da parte della Banca d'Italia. Ma a un certo punto ci siamo resi conto che non potevamo fare il nostro lavoro in Italia, per cui ci siamo spostati in America, a New York, prima alla Albert Einstein, nel 2000, e poi alla Columbia nel 2002".



Cosa era successo? Sin dal 1995 la piega delle cose aveva preso un verso poco lineare: "Il primario di oncologia, il professor Renato Mastrangelo, ha cominciato a renderci la vita impossibile - raccontava nel 2000 a Elena Dusi di Repubblica Iavarone - Ci imponeva di inserire il nome del figlio nelle nostre pubblicazioni scientifiche. Ci impediva di scegliere i collaboratori. Non lasciava spazio alla nostra autonomia di ricerca. Per alcuni anni abbiamo piegato la testa. Poi, un giorno, all'inizio del '99, abbiamo denunciato tutto".

E a quel punto, anche sulla scia di una denuncia per diffamazione effettuata dal professor Mastrangelo ("Abbiamo vinto la causa", precisava Iavarone) ai due coniugi ricercatori non è rimasta che la via del volontario esilio. Che per fortuna si è rivelata, poi, molto proficua, dal momento che lavorare negli Stati Uniti ha permesso loro di sviluppare nel migliore dei modi le loro intuizioni, dando una nuova speranza a chi contrae questa terribile malattia e ai loro familiari.


Affaritaliani ha seguito il lavoro prestigioso dei due ricercatori in questi anni (gli articoli sulle loro scoperte del 2009 sono riportati in calce), ma il Sistema Sanitario e Universitario nazionale sembra comunque che continui ad essere “sordo” a vicende come questa. Tra soddisfazione e delusione, assume carattere ancora più significativo quanto capita di ripetere al professor Iavarone nelle sue interviste: "Sono italiano e mi sento italiano. Mi sono laureato al Gemelli, lì sono diventato ricercatore e ho lavorato per dieci anni. Avrei voluto che il prestigio di questo risultato ricadesse sul mio paese. Mi sento un esule e per certi versi mi spiace aver ottenuto tutto questo lontano dall' Italia. Negli Stati Uniti si valutano i risultati. In Italia altri fattori, che nulla hanno a che vedere con la scienza. Certo, mi piacerebbe tornare, ma solo se mi fossero garantite libertà, indipendenza e autonomia. Qui mi hanno abituato così".


Per gentile concessione del direttore Enzo Garofalo di “Fame di Sud” (www.famedisud.it) si riporta l’articolo di Alessandro Novoli, piuttosto esaustivo sugli aspetti tecnico-scientifici della scoperta:

Due scienziati originari del Sud Italia scoprono a New York il meccanismo di crescita del tumore al cervello

La notizia è di quelle che riempiono il cuore di speranza per quanti si trovano a combattere contro una delle malattie più temibili per l’uomo e al tempo stesso è motivo di orgoglio per il nostro Paese. Ad esserne protagonisti sono infatti due scienziati originari del Sud Italia, fra i più stimati nel panorama internazionale della ricerca scientifica sui tumori; due brillanti ricercatori che, come tanti altri loro colleghi, hanno vissuto l’esperienza negativa dell’allontanamento dalla propria terra, troppo spesso incapace di garantire serie prospettive professionali anche a chi, come loro, ha tutte le carte in regola per eccellere ai massimi livelli. Parliamo del campano Antonio Iavarone e della pugliese Anna Lasorella, autori di una scoperta fondamentale per la lotta contro i tumori del cervello pubblicata di recente sulla prestigiosa rivista scientifica Nature. Si tratta della individuazione del meccanismo che favorisce lo sviluppo delle cellule staminali tumorali del glioblastoma, il più aggressivo e letale dei tumori cerebrali. Queste cellule danno inizio al tumore, ne favoriscono la crescita generando nuove cellule e resistono a terapie di forte impatto come radioterapia e chemioterapia permettendo la riformazione del tumore. La chiave di questo meccanismo, scoperta dai due scienziati e dal loro team della Columbia University di New York, si chiama Id-2, una proteina sulla quale da oltre 15 anni si sono concentrate le ricerche della coppia.


Tale proteina appartiene ai cosiddetti Inibitori del differenziamento (Id), che in condizioni normali permettono alle cellule staminali di moltiplicarsi, mentre in altre condizioni possono appunto favorire lo sviluppo di un tumore. In particolare si è notato che uno di essi, appunto la proteina Id-2, viene utilizzato dai tumori per creare cellule staminali di tipo tumorale. Il grande risultato a cui i due scienziati sono approdati è la scoperta del meccanismo molecolare che rende possibile il comportamento “deviato” della Id-2. Averne compreso la dinamica è il passo fondamentale per la individuazione di farmaci in grado di neutralizzarlo.


Quando si sviluppa, un tumore non riesce a disporre dei vasi sanguigni di cui ha bisogno per ossigenarsi; anche con pochissimo ossigeno riesce però a sopravvivere avvalendosi del supporto di due proteine chiamate Hif (Hypoxia Inducible Factor) alfa 1 e alfa 2. Il nemico naturale di queste due proteine è una terza proteina detta Vhl (von Hippel-Lindau), che è invece svolge il ruolo di soppressore dei tumori. Ma ecco che proprio la carenza di ossigeno provoca l’attivazione anche delle proteine Id-2 che vanno a boccare il soppressore dei tumori Vhl, consentendo così al cancro di svilupparsi.

Intuibile, a questo punto, il prossimo obiettivo della ricerca: trovare il modo di impedire a Id-2 di legarsi a Vhl. E aver scoperto come e dove il loro legame si instaura, rappresenta il passaggio fondamentale per arrivare alla individuazione di farmaci in grado di impedirlo e quindi di bloccare la crescita del tumore. Esperimenti condotti sui topi confermano la validità di questo percorso scientifico: Iavarone ha spiegato che al momento non sono stati utilizzati farmaci, ma solo manipolazioni, grazie alle quali si è riusciti a prevenire il legame tra le due proteine, bloccando lo sviluppo di tumori aggressivi del cervello. La sfida ulteriore sarà quindi individuare composti chimici in grado di bloccare il meccanismo, ossia di disinnescare l’azione della proteina Id-2 rendendola inoffensiva.



Se oggi si parla di Iavarone e Lasorella per le importantissime scoperte scientifiche compiute nei loro laboratori della Columbia University, nel 2000 i loro nomi sono saliti alla ribalta delle cronache italiane per un gesto eclatante, ossia aver denunciato pubblicamente l’impossibilità di continuare il proprio percorso di ricerca in Italia a causa del nepotismo esistente nelle università italiane. I due scienziati, facendo nomi e cognomi, rivelarono come un primario del reparto universitario romano in cui lavoravano avesse preteso più volte, e continuasse a pretendere, di inserire il nome del figlio nelle loro pubblicazioni scientifiche, pur senza che questi avesse partecipato alle attività di ricerca: “Per alcuni anni abbiamo piegato la testa – dichiarò Iavarone in un’intervista al quotidiano La Repubblica – Sono circa 25 le pubblicazioni illegittimamente firmate dal figlio del professore. Poi, un giorno, all’inizio del 1999, abbiamo denunciato tutto“. Questa scelta coraggiosa, come era prevedibile, fece intorno a loro terra bruciata, costringendoli a trasferirsi all’estero per proseguire serenamente l’attività di ricerca.



Ma vediamo di conoscerli un po’ più a fondo. Antonio Iavarone, classe 1963, è nativo di Montesarchio, un comune in provincia di Benevento. Laureato e specializzato in pediatria all’Università Cattolica di Roma, fino al 1999 ha lavorato presso il reparto di Oncologia Pediatrica del Policlinico Gemelli di Roma conducendo ricerche sul neuroblastoma e riuscendo ad individuare il ruolo della proteina Id-2 nello sviluppo di alcuni tumori dei bambini, fra cui proprio il neuroblastoma. Dopo aver denunciato, insieme con la collega e moglie Anna Lasorella, la situazione di prevaricazione in cui si erano venuti a trovare, si è trasferito negli USA dove attualmente vive e lavora. Oggi è professore di Patologia e Neurologia al Columbia University Medical Centre di New York ed è responsabile di un’equipe che ha svolto importantissime ricerche nella lotta contro i tumori. Nel 2013 sulla rivista Nature Genetics è uscito un suo studio sul glioblastoma multiforme che in tanti considerano cruciale per la lotta contro questa forma di tumore al cervello tra le più aggressive e frequenti. Lo scienziato ha infatti identificato i geni la cui alterazione è all’origine del tumore cerebrale: una conquista che potrebbe aprire la strada alla individuazione di farmaci per una efficace terapia. La scoperta del team di Antonio Iavarone si è posizionata al quarantesimo posto (ma al secondo nel campo dei tumori) nella classifica dei cento eventi più significativi per la scienza dell’anno 2012 stilata dalla rivista Discover.

iavarone lasorella 2

Accanto ad Antonio, nella vita così come in laboratorio, c’è da sempre Anna Lasorella, originaria di Noicattaro (Bari), cittadina dove vivono i suoi genitori. Dopo il diploma al liceo classico di Conversano (Bari), si è laureata in Pediatria all’Università Cattolica di Roma passando, dopo due specializzazioni, a lavorare nella divisione di Oncologia pediatrica della stessa università. Nel 1993 ha vissuto un’esperienza di lavoro a San Francisco dove è rimasta per tre anni presso l’Università della California. Ritornata in Italia, ha definitivamente fatto rientro negli Usa dopo la denuncia, condivisa con Iavarone, delle vessazioni subite nell’ambiente universitario, approdando prima all’”Albert Einstein College of Medicine” e successivamente al Dipartimento di Patologia e Biologia Cellulare e Pediatrica dell’”Institute for Cancer Genetics” della Columbia University di New York, dove la sua ricerca si concentra sui vari tipi di tumore al cervello.

([email protected])

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Pubblicato sul tema: Staminali/ Italiani scoprono gene chiave per lo sviluppo
view post Posted: 9/8/2017, 08:51 Una struttura finora sconosciuta avvolge i nostri cromosomi - DNA - Genetica - Virus

Una struttura finora sconosciuta avvolge i nostri cromosomi
Il 47% di ogni cromosoma umano è occupato da una struttura in gran parte sconosciuta, una sorta di guaina che sembra avere un ruolo nell’impedire errori durante la divisione cellulare
cromosoma

Sin dalla loro scoperta avvenuta nel 1882, i cromosomi, custodi della nostra informazione genetica, sono stati protagonisti di numerosi studi che ne hanno svelato forma e funzioni. Nonostante ciò, il loro aspetto sembra ancora nascondere più di un mistero. Lo conferma un nuovo studio, pubblicato su Molecular Cell, che ha individuato una struttura che finora era rimasta in gran parte sconosciuta, che avvolge i cromosomi come una guaina, e che potrebbe addirittura costituire circa il 47% della loro massa totale.

Ma come è possibile che per più di un secolo sia sfuggito ai ricercatori di tutto il mondo un dettaglio così importante? La maggior parte di quello che è noto sulla struttura dei cromosomi proviene dalla loro osservazione durante la divisione cellulare, l’unico momento in cui diventano visibili al microscopio perché si compattano in una struttura superavvolta. È chiaro, quindi, che potendoli osservare solamente in queste condizioni i ricercatori stavano lavorando su un quadro incompleto che non rappresentava tutti i dettagli di come i cromosomi appaiono veramente.

Per migliorare la capacità di osservare la struttura interna dei cromosomi, i ricercatori dell’Università di Edimburgo hanno messo a punto una nuova tecnica, chiamata 3d-Clem, in grado di combinare le potenzialità della microscopia ottica ed elettronica attraverso dei software di modelling computazionale: il risultato è stata la prima immagine tridimensionale ad alta risoluzione di tutti e 46 i cromosomi umani. Dopo aver ottenuto lunghezza, larghezza, area di superficie e volume dei cromosomi, e densità di impacchettamento del dna, i ricercatori hanno appunto scoperto una nuova struttura, una sorta di guaina, che sembra rivoluzionare le nostre conoscenze di base sull’aspetto reale dei cromosomi.

“Definire per la prima volta la struttura di tutti e 46 i cromosomi umani ci ha spinto a riconsiderare l’idea che li vedeva composti quasi esclusivamente di cromatina, un’assunzione che è rimasta invariata per quasi 100 anni”, racconta Daniel Booth, uno degli autori dello studio. Nella loro analisi infatti, Booth e colleghi hanno scoperto che la cromatina, il complesso di dna e proteine all’interno dei cromosomi, ammonta tra il 53 e il 70% del contenuto totale dei cromosomi. Il rimanente 30/47% sembra invece essere costituito da questa struttura che finora rientrava sotto il nome di periferia cromosomica, qualcosa che aveva attirato l’attenzione dei ricercatori in passato ma di cui ancora si ignorava la reale estensione.

Ancora non è chiaro quale sia la funzione di questa struttura ma i ricercatori sospettano si tratti di una guaina che tiene i cromosomi separati durante la divisione cellulare, in modo da prevenire errori che possono portare, per esempio, a malformazioni del nascituro o a generare vari tipi di cancro. Oltre a questo non si conosce molto altro, non si sa se questa struttura misteriosa si comporti come una guaina liquida o solida, e non è chiaro come riesca a influenzare i cambiamenti strutturali della cromatina durante la divisione cellulare.

“Visto che ora sappiamo che il nostro patrimonio genetico è avvolto da questo spesso strato di materiale (non ancora identificato) dobbiamo riformulare una teoria valida, e ripensare al modo in cui i cromosomi sono costruiti e a come si comportano durante la divisione cellulare” , spiega Bill Earnshaw, uno dei componenti del team di ricerca.

www.humangenyc.net

view post Posted: 9/8/2017, 08:46 dieta e cervelloDue quadratini di cioccolata al dì e il cervello ringrazia - Attenzione a ciò che mangiamo

Due quadratini di cioccolata al dì e il cervello ringrazia





Un team di ricercatori italiani ha scoperto che la somministrazione moderata, ma continuativa di cioccolato aumenta le capacità cognitive e ne previene la degenerazione legata all’invecchiamento




Che il consumo di cioccolato sia stato correlato a numerosi effetti benefici sulla nostra salute è ormai assodato. Ma che addirittura potenziasse le capacità cognitive e aiutasse il nostro cervello a essere più attivo, forse ci mancava. A suggerirlo su Frontiers in Nutrition è stato un team di studiosi italiani dell’Università dell’Aquila, secondo cui appunto il cacao e i suoi derivati avrebbero notevoli effetti benefici sul nostro sistema nervoso centrale.



I responsabili sarebbero i flavonoidi, una nota classe di composti naturali dai notevoli effetti neuroprotettivi, che sono contenuti nel cacao. Questi si sono dimostrati capaci di migliorare le capacità cognitive negli individui adulti, dopo un’assunzione giornaliera e a lungo termine, da un minimo di cinque giorni a tre mesi continuativi. In particolare, il team di ricercatori italiani ha notato un aumento dell’attenzione, della comprensione, della memoria e della capacità di linguaggio. Inoltre, dallo studio è emerso che i miglioramenti sono stati maggiormente evidenti soprattutto negli anziani, con un iniziale deficit cognitivo.

I flavonoidi hanno diverse azioni: sul sistema cardiovascolare, per esempio, migliorano l’elasticità dei vasi sanguigni e promuovono l’abbassamento della pressione. A livello cerebrale, secondo lo studio, i flavonoidi contenuti nel cioccolato aumentano il volume di sangue nel giro dentato dell’ ippocampo, struttura che è molto sensibile all’invecchiamento cellulare e da cui dipende il declino della capacità della memoria.

I risultati dello studio potrebbero avere un impatto positivo sulla salute umana, tale da poter prendere in considerazione un utilizzo mirato e quasi terapeutico di questo alimento. Tuttavia, non dimentichiamoci degli effetti collaterali che l’assunzione giornaliera di cioccolato comporta, come l’apporto calorico, la presenza di sostanze chimiche eccitanti come caffeina e teobromina e di altri ingredienti aggiuntivi, come zucchero e lattosio. Una soluzione, precisano i ricercatori, potrebbe essere circoscrivere l’assunzione al solo cioccolato fondente, in quantità pari a circa 10-20 grammi al giorno, che corrispondono a circa 1-2 quadratini di una tavoletta.

Riferimenti: Frontiers in Nutrition
view post Posted: 9/8/2017, 08:33 Scoperto un dinosauro dalla corazza colorata - Archeologia - mistero - viaggiatori del sacro
Scoperto un dinosauro dalla corazza colorata



Sembra un drago addormentato, ma è un fossile di dinosauro straordinariamente ben conservato, con pelle pigmentata per sfuggire ai predatori
dinosauro

A guardarlo sembra proprio un drago addormentato, ma questo esemplare di Borealopelta markmitchelli – così come è stato appena battezzato dai ricercatori del Royal Tyrrell Museum of Palaeontology di Drumheller (Canada) – altro non è che un fossile di dinosauro straordinariamente ben conservato.

Per la precisione si tratta di una nuova specie della famiglia dei nodosauri, giganteschi rettili dotati di corazza. Ma sembra proprio che l’essere grande, grosso e corazzato non fosse sufficiente per difendersi dai dinosauri carnivori: gli ultimi studi hanno rivelato infatti che la parte superiore dell’armatura naturale di questa specie era pigmentata di rosso-marrone, un espediente per sfuggire ai temibili predatori del Cretaceo.


La scoperta dell’équipe del Royal Tyrrell Museum of Palaeontology, documentata in un articolo di Current Biology, è con tutta probabilità solo la prima delle sorprese che lo studio di questo animale vissuto 110 milioni di anni fa fornirà.




Ritrovato nel 2011 durante uno scavo minerario nella regione di Alberta, l’esemplare fossile di Borealopelta markmitchelli è stato definito dagli esperti la Monna Lisa dei dinosauri, per la bellezza e il fascino che un così eccellente stato di conservazione gli conferisce.

Un’integrità che fornisce agli scienziati molto materiale da studiare.

“Questo fossile di nodosauro è davvero notevole: la pelle scabra che ricopre tutto il corpo è ben conservata, e anche la struttura tridimensionale si è mantenuta, tramandandoci così la forma originale dell’animale” spiega Caleb Brown del museo in cui oggi è conservato il reperto.


Scoperto un cugino dei dinosauri (ed è diverso da come lo immaginavamo)

Scoperto un cugino dei dinosauri (ed è diverso da come lo immaginavamo)
“Il risultato è che l’animale oggi sembra quasi uguale a quello del Cretaceo. Non è necessario usare molta immaginazione per farsene un’idea: basta strizzare un po’ gli occhi e si può quasi credere che stia solo dormendo”.

I ricercatori hanno cominciato ad analizzare proprio l’armatura di questo rettile di 5,5 metri di lunghezza, caratterizzando la nuova specie in base alla dimensioni del corpo, alla grandezza e forma delle scaglie. Hanno poi effettuato anche analisi chimiche del materiale organico della corazza, trovando tracce di melanina. Gli scienziati sono dunque arrivati alla conclusione che Borealopelta markmitchelli avesse una pelle pigmentata, dal colore rosso-marrone nella parte superiore (sul dorso), e più chiara in quella inferiore.

Questa caratteristica colorazione è tuttora presente in alcune specie animali soggette a predazione, ma per gli esperti la sua presenza in un animale di così grandi dimensioni e già dotato di una super corazza difensiva è davvero sorprendente. Un simile espediente difensivo in un animale che in pratica era un carro-armato vivente suggerisce che i predatori del Cretaceo fossero ancora più temibili di quel che si possa pensare.

Le ricerche non si fermeranno qui. I ricercatori stanno già lavorando per caratterizzare la corazza difensiva di Borealopelta markmitchelli ancora più in dettaglio, e pensano di esaminare addirittura il contenuto dell’intestino del dinosauro per scoprire la natura del suo ultimo pasto.
www.Royal Tyrrell Museum of Palaeontology.com
view post Posted: 8/8/2017, 17:21 Quella innata capacità di prevedere - Paranormale intorno a noi...
Quella innata capacità di prevedere


È capitato a tutti di avere presentimenti che inducono a scegliere una direzione piuttosto che un'altra o a prendere una particolare decisione. Attribuiamo queste scelte al cosiddetto 'sesto senso', una sorta di istinto che ci spinge a scelte, che vanno oltre il ragionamento. Ma il sesto senso esiste davvero? “Gli organi di senso con i quali vengono raccolte le informazioni dall'ambiente sono solo cinque. A questi va aggiunto l'intuito, quando, anche senza rendercene conto, percepiamo dati dall'ambiente e li analizziamo attingendo alle nostre esperienze passate e sulla base di queste facciamo previsioni”, spiega Marzia Baldereschi dell'Istituto di neuroscienze (In) del Cnr. “Una persona intuitiva sa dunque sfruttare bene e rapidamente il patrimonio fornitogli dall'esperienza e sa interpretare indizi percepiti anche in modo inconsapevole”.

Il sesto senso è definibile dunque come un 'sapere senza vedere', in cui inconsapevolmente si avverte una situazione in anticipo rispetto al reale accadimento, ovvero si prevede. “I neuroscienziati hanno definito questo fenomeno un''attività anticipatoria neuronale' e recentemente uno studio della Scuola Normale Superiore di Parigi ha addirittura identificato aree e circuiti neurali del sesto senso, differenti a seconda del tipo di personalità”, continua Baldereschi. “In particolare, il senso di pericolo nelle personalità ansiose viene elaborato direttamente nella regione del cervello responsabile dell'azione, la corteccia prefrontale nel lobo frontale; in quelle più tranquille viene invece processato dai circuiti deputati al riconoscimento facciale, il giro fusiforme, che costituisce una parte del lobo frontale”.

Negli ultimi 20 anni le ricerche sul sesto senso si sono moltiplicate anche perché consentono approfondimenti in ambito medico. “Interessanti, in questo ambito, gli studi sulle persone cieche, dotate di 'blind sight', visone cieca o inconsapevole, dimostrata dallo psicologo di Oxford Lawrence Weiskrantz,” conclude la ricercatrice. “Nel blind sight i pazienti non vedenti riescono a usare le informazioni visive che arrivano ai centri di controllo motorio senza passare per le aree visive della corteccia, usando queste informazioni in modo inconsapevole, come guida per le loro azioni”.

Rita Bugliosi

Fonte: Marzia Baldereschi, Istituto di neuroscienze del Cnr, Firenze,
view post Posted: 8/8/2017, 10:22 Clima, il rapporto: «Temperature record colpa dell'uomo» - Comportamento sociale
Clima, il rapporto: «Temperature record colpa dell'uomo»

Un rapporto stilato da scienziati di 13 agenzie governative statunitensi denuncia i gravi effetti dei cambiamenti climatici, sottolineando che l'attività umana è una delle principali cause di questo sconvolgimento. Lo rivela il New York Times, spiegando che il rapporto è ancora in attesa dell'approvazione dell'amministrazione di Donald Trump, notoriamente scettica su questo tema. Alcuni scienziati citati dal quotidiano dicono di temere che il testo venga soppresso. Secondo lo studio, la temperatura media negli Stati Uniti è cresciuta rapidamente e drasticamente a partire dagli anni Ottanta, tanto che gli ultimi decenni sono stati i più caldi degli ultimi 1500 anni.

Migliaia di studi, condotti da decine di migliaia di scienziati, hanno documentato la realtà dei cambiamenti climatici, scrivono gli estensori del rapporto, secondo i quali «vi sono diverse linea di prova che dimostrano come le attività umane, specialmente le emissioni di gas serra, siano primariamente responsabili per i recenti cambiamenti climatici». Il rapporto fa parte del National Climate Assessment, un documento che va preparato ogni quattro anni, secondo quanto stabilito dal Congresso americano.

L'Accademia Nazionale americana delle Scienze ha già firmato la bozza del rapporto e attende il via libera della Casa Bianca per pubblicarlo. Fra le entità che devono approvare il rapporto entro il 18 agosto vi è l'Agenzia per la Protezione dell'Ambiente (Epa), ora guidato da Scott Pruitt, che si è più volte detto scettico sui cambiamenti climatici e le responsabilità dell'uomo. La linea è la stessa del presidente Trump, che ha già annunciato l'intenzione americana di uscire dall'accordo di Parigi sul clima. «È la prima volta che un'analisi di questa portata sui cambiamenti climatici emerge in seno all'amministrazione Trump e la comunità scientifica osserverà con molta attenzione come verrà gestita», ha commentato Michael Oppenheimer, professore di geoscienze all'università di Princeton, che non ha partecipato alla stesura del documento.

Altri scienziati coinvolti nello studio hanno espresso in forma anonima al New York Times il timore che la Casa Bianca possa alterare o sopprimere lo studio. Il rapporto cita le ondate di calore del 203 in Europa e del 2013 in Australia come prove dell'effetto dell'attività umana sulle temperature estreme. Secondo i dati raccolti, tutto il territorio degli Stati Uniti è stato toccato dai cambiamenti climatici e le temperature medie cresceranno fra i 2,8 e i 4,8 gradi entro la fine del secolo a seconda del livello delle future emissioni inquinanti. Particolarmente allarmante è il riscaldamento climatico in Alaska e nell'Artico, che procede due volte più in fretta rispetto alla media globale, con conseguenze sul livello di innalzamento dei mari che pongono a rischio le comunità costiere.

Martedì 8 Agosto 2017

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view post Posted: 8/8/2017, 07:35 La dieta mediterranea fa bene solo ai ricchi - Attenzione a ciò che mangiamo

La dieta mediterranea fa bene solo ai ricchi



(Neuromed) – La dieta mediterranea riduce il rischio di malattie cardiovascolari, ma solo se a seguirla sono i gruppi economicamente più forti. È questo il sorprendente risultato di una ricerca condotta dall’Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico IRCCS Neuromed su oltre 18mila persone adulte reclutate nell’ambito dello studio Moli-sani e pubblicata sulla rivista International Journal of Epidemiology.



Che la dieta mediterranea offrisse vantaggi consistenti per la salute cardiovascolare era cosa nota, ma ora lo studio Neuromed, condotto dal Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione, diretto da Giovanni de Gaetano, rivela che i benefici di questo modello alimentare sono fortemente condizionati dalla posizione socioeconomica delle persone. In pratica, a parità di adesione alla dieta mediterranea, la ricerca ha evidenziato che la riduzione del rischio di patologie cardiovascolari si concretizza solo nelle persone che hanno un livello di istruzione elevato e in chi ha un reddito familiare più consistente. Nessun beneficio significativo è stato invece riscontrato nelle classi sociali più deboli.



“Che la dieta mediterranea riduca il rischio di sviluppare un evento cardiovascolare nel corso degli anni è ben noto da tempo– conferma Marialaura Bonaccio, ricercatrice del Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione del Neuromed e primo autore dello studio – La novità del nostro studio è di aver documentato per la prima volta che il livello di istruzione e il reddito sono in grado di modificare nettamente i vantaggi potenziali della dieta mediterranea sulla nostra salute cardiovascolare. In altre parole, per quanto una persona a basso reddito possa seguire la dieta mediterranea in maniera ottimale, non avrà gli stessi vantaggi di una persona che segue la stessa dieta ma dispone di un reddito maggiore”.

I ricercatori sono andati oltre e hanno cercato di comprendere i possibili meccanismi che possono essere alla base di queste disparità.

“A parità di adesione alla dieta mediterranea, i gruppi socialmente più avvantaggiati riportavano una serie di indicatori di buona alimentazione migliori rispetto alle persone meno abbienti – spiega Licia Iacoviello, capo del Laboratorio di Epidemiologia molecolare e nutrizionale dello stesso Dipartimento – Ad esempio, a parità di consumo dei prodotti tipici della dieta mediterranea, l’alimentazione delle persone con alto reddito e un livello di istruzione maggiore, risultava più ricca di antiossidanti e polifenoli, oltre a presentare una maggiore diversità in termini di frutta e verdura consumate. Non solo. Abbiamo riscontrato differenze socioeconomiche anche per quanto riguarda il consumo di prodotti integrali e i metodi di cottura degli alimenti. Sempre a parità di punteggio di adesione alla dieta mediterranea, le persone con una migliore posizione sociale tendevano a consumare relativamente più pesce e frutta secca a guscio e meno carne e derivati. Tutto questo ci spinge a credere che sia la diversa qualità dei prodotti della dieta mediterranea consumati a fare la differenza e non solo la loro quantità o frequenza di consumo”.

“I risultati di questo studio ci devono far riflettere seriamente sullo scenario socio-economico della salute – commenta Giovanni de Gaetano, direttore del Dipartimento – Le disparità socioeconomiche sono in crescita, e si manifestano anche a tavola. Non solo le persone tendono in generale a seguire sempre meno la dieta mediterranea, ma i più deboli dal punto di vista socio-economico consumano prodotti teoricamente ottimali ma di fatto con minori qualità salutistiche. Non basta più dire che ‘la dieta mediterranea fa bene’ – conclude de Gaetano- se non garantiamo che faccia bene a tutti!”.

Riferimenti: High adherence to the Mediterranean diet is associated with cardiovascular protection in higher but not in lower socioeconomic groups: prospective findings from the Moli-sani study; Marialaura Bonaccio, Augusto Di Castelnuovo, George Pounis, Simona Costanzo, Mariarosaria Persichillo, Chiara Cerletti, Maria Benedetta Donati, Giovanni de Gaetano, Licia Iacoviello on behalf of the Moli-sani Study Investigators. International Journal of Epidemiology
view post Posted: 7/8/2017, 11:20 Come superare la morte del proprio cane. Il parere della psicologa - L'angolo dedicato a tutti gli animali
Come superare la morte del proprio cane. Il parere della psicologa


Quando il nostro amico fedele muore, si dice che voli sul “ponte dell’arcobeno“. Alla sua morte ci troviamo ad affrontare un lutto, simile alla perdita di una persona cara. Come possiamo superare emotivamente la morte del nostro cane? La Dott.ssa Simona Campli, psicologa dell’Associazione Fuori dallo Studio, ci spiega come superare il dolore della perdita e come accettarla.

Un sentimento di affetto e di amore dopo un certa soglia trascende, va oltre l’oggetto d’amore che l’ha inizialmente suscitato, in questo caso il cane.

Proprio per questo quando il cane viene a mancare si continua a sentire l’affetto, e quindi il dolore che l’assenza e la separazione provocano.

Chi perde il suo fido amico a quattro zampe si sente vulnerabile, solo, immerso in un complicato insieme di emozioni di varia natura, a metà tra il passato e un presente che ancora fatica ad accettare.

Una volta che sopraggiunge il dolore l’individuo può reagire in diversi modi: lasciarsi andare al senso di disperazione, non volere più un cane oppure cercare di dimenticarlo o sostituire il suo affetto prendendone presto un altro.

In ogni caso superare il lutto e la perdita di un affetto importante come quello di un cane in maniera funzionale per l’individuo è un percorso che non presenta scorciatoie o facilitazioni.
 Il lutto non guarisce, può solo decantare, ovvero tutti i tentativi di non vivere la sofferenza provocata da una perdita non fanno altro che prolungarla nel tempo. Un esempio è nell’evitamento.

Evitare pensieri relativi al passato, luoghi che possano ricordarci un passato ora troppo doloroso, sono i modi migliori per mantenerlo vivo. Evitando ci ricordiamo. Il presente si inonda del passato e la persona rimane bloccata.

Bisogna passarci dentro per venirne fuori, far sì che dalla sofferenza per la perdita la persona riesca a ritrovare la serenità nella consapevolezza di ciò che ha vissuto.

Vivere un po’ alla volta il dolore che tutto insieme ci spaventa, ricordando giorno per giorno i momenti migliori di ciò che si è vissuto. Riappropriarsi del passato, rimettendolo nel passato, permettendo invece al presente di colorarsi di nuove fonti di piacere, magari con un nuovo amico in famiglia!

Si ringrazia la Dott.ssa Simona Campli, psicologa dell’Associazione Fuori dallo Studio
view post Posted: 7/8/2017, 11:12 Dal profondo del cuore. Diario ed esilio di un cardiochirurgo - La libreria del CSB
Dal profondo del cuore. Diario ed esilio di un cardiochirurgo
20 LUGLIO 2017 - MARINA BIDETTI

La laurea in Italia, il tirocinio in Sudafrica con Barnaard, l’esperienza negli Usa, il primariato in Gran Bretagna e in Scozia. Uno dei venti cardiochirurghi più famosi al mondo racconta le tappe di una straordinaria avventura umana e professionale. Esclusa una parentesi italiana

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“Non si può fare il medico pensando a quali altri benefici ottenere dalla propria professione. La medicina, la chirurgia in particolare, richiede un impegno e una dedizione al compito totali. Non c’è tempo per fare altro. E con “altro” intendo costruire sistemi di potere, creare e disfare alleanze, ottenere benefici personali o sgravi lavorativi. Ho visto persone abbandonare un paziente ancora in fase di diagnosi soltanto perché era finito il turno. Non si può lavorare con la testa alle proprie esigenze personali, altrimenti la gente muore”.


Certe volte per capire i punti di forza e le criticità di una situazione bisogna esserne completamente estranei. L’ideale, dunque, sarebbe proprio un extraterrestre, per vedere cosa funziona e cosa non va. Più o meno è questo lo sguardo di Ciro Campanella nel suo saggio autobiografico Dal profondo del cuore. Diario ed esilio di un cardiochirurgo (Di Renzo Editore). Perché Ciro Campanella – 67 anni, cardiochirurgo di fama mondiale, modi semplici e sorriso franco – italiano di nascita, è andato a fare il suo mestiere in tutte le altre parti del mondo: Sudafrica per cominciare, come allievo di Christiaan Barnard (l’inventore del trapianto di cuore); Gran Bretagna, come il più giovane primario (a soli 36 anni) e primo italiano nominato in Scozia in questa specialità; Stati Uniti, per farsi le ossa in trapianti d’ogni genere e specialità (cuore, polmoni, esofago); e poi Cina, India, Russia, Turchia, Svezia… Insomma, Campanella i continenti li ha girati tutti, diventando uno tra i venti cardiochirurghi più famosi al mondo, ossia uno di quelli che vengono chiamati quando c’è da mettere alla prova una nuova tecnologia o un nuovo intervento, perché offrono garanzia di sopravvivenza al paziente del 99,3%. Questo il tasso di riuscita di quelli veramente bravi, gli altri si “accontentano” della media internazionale del 98%. Extraterrestre sì, ma competente.

A un certo punto della sua carriera, vinto dalla nostalgia di casa, Campanella accetta per concorso un incarico da primario in cardiochirurgia a Roma. Non sospetta nemmeno – perché non è abituato a pensare certe cose – che il concorso in verità è “fallato” da un provvedimento preesistente di chiusura dell’ospedale. Nessuno si prende la briga di avvertirlo, perché intanto qualche politico ha deciso di fare del rilancio di quel nosocomio il suo cavallo di battaglia. E chi meglio di un professionista di fama internazionale per ottenere i titoli dei giornali?

Ciro Campanella si trova così catapultato in un reparto tutt’altro che efficiente e per quattro anni tenta disperatamente di vincere l’inerzia del personale medico, superare le sfiancanti prassi della burocrazia statale e resistere gli assalti del nuovo orientamento politico, che quel reparto, adesso, lo vuole chiuso. Quattro anni, comunque, di grandi risultati, tanto che i suoi numeri (più di 500 interventi all’anno) e la sua fama cominciano a preoccupare le cardiochirurgie concorrenti, che si ritrovano improvvisamente a corto di pazienti. Infine, all’ennesimo attacco – stavolta un’accusa penale, mostruosa e ingiustificata – Campanella si arrende.

“Se guardo indietro alla mia avventura romana – non italiana, dal momento che Roma è una città disfunzionale che rappresenta una realtà a parte – mi rendo conto di aver fatto tanti errori di valutazione. Il maggiore dei quali è stato tornare in Italia”, scrive il cardiochirurgo. Il fatto è che nei quattro anni della sua disavventura romana – “non italiana, dal momento che Roma è una città così disfunzionale che rappresenta una realtà a parte” – il suo sguardo si è incontrato con cose a lui aliene. La prima è la medicina difensiva – molto meno diffusa in altri Paesi, come, per esempio, Stati Uniti e Gran Bretagna – all’origine del proliferare degli accertamenti, non strettamente necessari ma richiesti dal medico per cautelarsi in caso di azioni legali da parte di un paziente. Il che fa lievitare i costi della cura, ritarda interventi magari necessari e urgenti, dilaziona le responsabilità del medico ma non il reale danno alla salute del malato. Perché? Perché in Italia, osserva l’alieno Campanella, esiste una prassi, sconosciuta nei paesi di ordinamento giuridico anglosassone, che è l’accusa di “omicidio colposo”. Ovvero: se un medico sbaglia diagnosi o intervento e il paziente muore, l’autorità competente per eventuali sanzioni non è un qualche collegio medico o sanitario, chiamato ad esaminare la correttezza dell’intervento, bensì il magistrato. Ma escludendo episodi chiaramente dolosi, osserva Campanella, la medicina non è una scienza esatta, altrimenti non si morirebbe. Ogni specialità chirurgica ha un suo indice di mortalità, ossia una media comunemente accettata di non riuscita dell’intervento, per cause tecniche, fisiche, pregresse, postume… Così, per un intervento di bypass aortocoronarico, si “accetta” che 2,4 pazienti ogni cento non sopravvivano. Se un medico opera entro tali medie, vuol dire che sta facendo il suo dovere e lo sta facendo bene.

Qui entra in gioco una seconda peculiarità della terra italica. In quasi tutti i Paesi del mondo il tasso di mortalità del chirurgo è ad personam: si contano gli interventi fatti dal singolo chirurgo e quelli che hanno portato alla morte del paziente entro 30 giorni dall’intervento. In Italia no. In Italia, la mortalità è per reparto o unità operativa. Il che vuol dire che o nella sala operatoria di un reparto ci entrano soltanto chirurghi “bravi” oppure la credibilità dell’intero reparto è sacrificata, ma attenzione: non quella dei singoli chirurghi. Ciò rende davvero difficile stabilire parametri di qualità e responsabilità univoci.

Terza peculiarità nostrana, conseguente ai primi due: chi decide se un chirurgo è bravo o meno? In Italia è il magistrato. Non una commissione medica qualificata, che valuti carriera, incarichi e competenze del tal chirurgo; non la direzione sanitaria dell’ospedale; non il primario del reparto. Indirettamente, l’unico che veramente decide di una carriera medica è il magistrato: se non lo giudica colpevole di omicidio colposo, allora può continuare a lavorare, diluendo magari la sua mortalità in quella del reparto.

Ma se la morte del paziente è la discriminante di carriera di un chirurgo, vien da sé che gli interventi più difficili non li vorrà fare nessuno. La maggior parte dei chirurghi, osserva Campanella, compie operazioni di routine, senza assumersi rischi, a meno che non si abbia un’assoluta sicurezza nelle proprie capacità. E come si conquista questa sicurezza? Con la competenza, con il tirocino e la pratica, cosa che in Italia, però, nessuno ti fa fare. La chirurgia è una specialità davvero difficile nel nostro Paese, osserva il cardiochirurgo, non tanto perché sia complicato impararla quanto perché – a meno di non rientrare nelle logiche consortili del “padrino-padrone” che ti fa fare carriera – il giovane tirocinante la sala operatoria può non vederla mai. Il che vuol dire che non conquisterà mai quella consapevolezza dei propri mezzi necessaria a sapere cosa può fare e cosa non può fare.

“La sicurezza”, scrive Campanella, “non deriva dal posto, ma da qualcosa che nasce in se stessi: dalla consapevolezza di conoscere il proprio lavoro. Questa consapevolezza del conoscere e conoscersi crea una libertà pratica ed emotiva, che ti permette di muoverti nel mondo – attraverso diversi paesi – semplicemente facendo quello che sai fare. Insomma, tutto il contrario del posto sicuro, che ti rende invece prigioniero e impedisce alle tue aspirazioni di andare altrove”. Sperimentare e innovare fanno parte della pratica medica, del suo migliorarsi, quotidianamente, dinanzi all’ostacolo. Se creiamo generazioni di chirurghi incerti dei propri mezzi o di medici dediti al perseguimento di un posto sicuro e alla salvaguardia di una carriera, anziché alla cura del paziente, stiamo privando la medicina della sua risorsa più preziosa.

Ce n’è di che riflettere, in appena 150 pagine di libro.



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view post Posted: 7/8/2017, 07:26 ADDIO PRINCIPESSA TESS! MI MANCHI DA MORIRE! - Cani

Quando Dio finì le ali per gli angeli ,GLI DIEDE UNA CODA! Gli unici angeli chi ho visto sulla terra avevano la coda.




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